Accomodati, di’ pure la cosa sbagliata

[KwangHo Shin, Untitled oil on canvas, 2013]

Volevo iniziare questo articolo con qualche bel pensiero contorto e complicato, una di quelle finte massime di vita che mi porto appresso per un paio di giorni, fiera di me, e che poi dimentico come se niente fosse. Invece stavolta non m’è venuto in mente niente di particolarmente edificante. È andata così.

Quindi eccoci qua, createvi il cappello introduttivo che più vi piace e appiccicatelo sopra la roba che vi devo raccontare. È talmente urgente raccontarvela che posso perfino fare a meno di menate inutili sul senso dell’esistenza, figuratevi!

Dunque, un paio di settimane fa, stavo trascorrendo un classico pomeriggio tra i soliti rosa, rosae, rosae e lupus, lupi, lupo: i miei preferiti.

Il punto è che non ero di fronte al solito fanciullo stile pesce rosso, che non riesce a mandare giù 12 stramaledette parole in sequenza, ma a un giovane studente cieco.

Ora, niente cose del tipo: “Si dice non vedente!”, con l’aria della maestra che redarguisce un bambino verbalmente problematico. No, si dice cieco: non è un dispregiativo, non è un insulto. Per i Greci, i ciechi erano sempre una spanna sopra a tutti, un passo più vicini alla verità rispetto agli altri: profeti, indovini e saggi di varia natura. Omero era il cieco di Chio e la classicista che è in me pensa che, grazie alla sua aura mistica, la parola cieco possa considerarsi di tutto rispetto.

Dicevo, il mio amico delle declinazioni è cieco e la strada per prendere 6 in latino non è sempre particolarmente agevole, seppur lastricata di buone intenzioni. Decido di cambiare strategia: lui è fortissimo a ricordare sequenze di elementi. E sequenza sia!

<< Che ne dici di scegliere un colore per ogni desinenza? >>

Lui sceglie tre colori e la prima declinazione suona tipo verde, rosso, rosso, giallo, verde, verde. Mentre lui ripete la declinazione (perfettamente!) ricordando la successione dei colori, inizia per me una specie di lento risveglio, e nel pieno del mio torpore comincia a imporsi l’immagine di me che chiedo a un cieco di scegliere dei colori. Realizzo. Deglutisco. Lo guardo in ansia. È troppo educato per prendermi a male parole. Sospiro e mi stropiccio la faccia. Non vedo convincenti vie di fuga da questa figuraccia colossale. Vabbè, mi gioco la sincerità, quanto male potrà andare?

<< Lu, senti… parliamoci chiaro. Ti ho chiesto di scegliere dei colori e tu l’hai fatto. Però per me i colori sono una cosa ovvia, io ci vedo! Ma tu comunque non hai fatto una piega e quindi io stavo pensando che….>>

<< Ma io i colori li conosco.. >>

<< Sì, certo, non ne dubito. Però…>>

<< Cioè per me i colori sono delle sensazioni, delle emozioni >>

<<…>>

Spiazzamento senza pari. Cosa rappresenteranno i colori per chi non conosce stereotipo? La mia uscita infelice ha una mezza possibilità di riservarmi un finale interessante.

<< Cioè? Quindi i colori che hai scelto prima…>>

<< Il giallo è la felicità, per me. Siamo noi qui adesso… >>

Noi. Noi che stiamo ripetendo le declinazioni. Noi siamo il giallo, la felicità.

<< E il rosso? >>

<< Uhm… il rosso è…. è il martedì! >>

<< Il martedì?! >>

<< Sì, il martedì, quando vado a fare terapia e mi annoio, sto lì e non mi va, faccio sempre le stesse cose e le persone non sono simpatiche…>>

Poi scopro che il verde è stare sul divano con gli amici, tranquilli, anche a non fare niente di speciale. Solo stare lì, insieme. Ha ragione. L’immagine è perfettamente verde. Il rosa è il colore della vergogna e il grigio è un dispiacere venato di nostalgia, come quando stai solo.

A questo punto ho più o meno cervello e annesse convinzioni accartocciate e l’anima in apnea.

Pensavo di aver detto la cosa sbagliata, di avergli chiesto qualcosa di drammaticamente insensibile e invece è stata la cosa migliore che io abbia fatto quel giorno. Essermi scoperta, avergli mostrato la mia goffaggine e aver ammesso di essere totalmente fuori luogo si è rivelata un’occasione unica di contatto autentico. Perché se io non gli avessi detto che quasi mi sentivo in colpa per quel che gli avevo chiesto, lui non mi avrebbe raccontato una parte di sé, così com’è.

Crolla così anche una delle poche certezze che mi erano rimaste: possono essere belle anche le cose sbagliate.

Suona quasi liberatorio.

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